Che le distinzioni tra i generi siano spesso arbitrarie, al limite inutili, lo fanno capire i grandi scrittori. Håkan Nesser è un grande scrittore, forse il migliore tra i giallisti scandinavi, almeno per chi preferisce l’approfondimento psicologico alle scene d’azione. E, forse per questo, L’uomo con due vite, che pure dovrebbe esserlo, assomiglia pochissimo a un giallo.
Per una buona metà, per la precisione, non ha assolutamente nulla del romanzo poliziesco. Non c’è alcun crimine, non compare nessun poliziotto. C’è invece un uomo, Ante Valdemar Roos, sulla soglia dei sessant’anni. Un uomo con una vita normale fino alla noia. Uno che parla poco e pensa molto. E, pensando pensando, s’inventa una nuova vita parallela alla prima. Grazie anche a un gran colpo di fortuna e a un incontro inaspettato.
Quando poi, dopo duecento pagine abbondanti, arrivano i primi ingredienti da romanzo giallo – un morto, qualche sbirro – il mondo di Ante Valdemar Roos è cambiato radicalmente. La sua vita è tutt’altro che noiosa, ora. Le parole del padre apparso in sogno, che da tempo gli echeggiano nel cervello, sembrano adesso una specie di profezia: “La vita non sarà mai meglio di così“. Parole che, a leggerle con attenzione, possono anche contenere un presagio di sventura.
In un romanzone di 450 pagine, dai ritmi lenti, pervaso da sottile ironia, Nesser scava a fondo nella psicologia dei personaggi. Oltre a Roos c’è una ragazza ventenne, Anna, e poi il commissario Barbarotti, appena sposato e con tanto di gamba ingessata, e la sua collega Eva Backman. Poche figure con cui Nesser costruisce un romanzo esemplare ma che non tutti apprezzeranno. Se amate l’azione, o il poliziesco classico, potrebbe non piacervi.