Aprire un nuovo romanzo di Stefano Benni è diventato pericoloso, negli ultimi anni, per chi l’ha conosciuto, letto e amato fin dagli anni Ottanta. È come rivedere dopo molti anni una persona cara e aver paura di non riconoscerla, di ritrovarla appassita, cinica, senza slanci.
Con ogni romanzo nuovo di Stefano Benni è stato così, almeno per me, almeno da Margherita Dolcevita in poi.
Era il 2005 e sono seguiti libri come La grammatica di Dio, come Le Beatrici, come Pane e tempesta: tutti avevano qualcosa di Benni, ma diluito in un mar torbido di malinconie, oppure frammentato e non più ricomposto. Sembrava che il furore creativo di Benni fosse trapassato in stanchezza, così, da un momento all’altro. Dov’era finito quello scrittore capace di inventare mondi e personaggi, di farci ridere in cento modi diversi?
[cro_callout text=”«Di tutte le ricchezze che ho viste una sola io vorrei davvero i tuoi occhi di acqua celeste»” layout=”2″ color=”#891C09″]Diciamolo subito e diciamolo con gioia: Di tutte le ricchezze è un gran bel libro. Stefano Benni è tornato, riconoscibile ma diverso, finalmente riconciliato. (Riconciliato con che cosa non so: con se stesso, col mondo, con la scrittura, con i lettori).Di tutte le ricchezze è la storia di un vecchio professore, studioso e poeta, cittadino che abita in campagna, lupo solitario che non disdegna occasionali compagnie, ex donnaiolo pacificato ma non troppo, non per sempre. Questo protagonista, dietro cui non si fatica troppo a individuare l’autore, si chiama Martin, vive con un cane e parla con gli animali, o meglio: intrattiene con gufi, bisce e cinghiali illuminanti, divertentissime conversazioni.
Quando una coppia si trasferisce nella casa di fronte, Martin sospetta che qualcosa nella sua vita regolare stia per cambiare. E infatti:i vicini sono Aldo e Michelle, ma lui presto diventa il Torvo, lei la Principessa del grano, così simile a una donna amata in passato da mettere addosso a Martin paure e fremiti. Ma nessuna malinconia.
[cro_callout text=”«Guardate gente, Catena son chiamato Al mio sguardo furioso incatenato»” layout=”3″ color=”#891C09″]Ci sono invece tante storie, che corrono parallele alla nervatura principale della trama, che è senz’altro è esile, ma è inutile chiedere a Benni straordinari intrecci: non è mai stato quel tipo di scrittore. Meglio chiedergli fantasia, divertimento, nomi bizzarri, assurde ricette e remote leggende; meglio chiedergli poesia, e tanta: ogni capitolo è introdotto dai versi del Catena, un poeta pazzo locale che il professor Martin amorevolmente studia.Stefano Benni detto il lupo – non a caso è un vecchio lupo, l’ultimo animale che Martin incontra – Stefano Benni è tornato con una voce diversa ma è sempre lui, certo più maturo (del resto ha 65 anni) ma grande. Questo romanzo non è perfetto ma dimostra una cosa: che il lupo ha ancora cose da dire, e chi lo ama di certo spera che continui a farlo.