Patrick Dewitt
L’UOMO CHE AMAVA I LIBRI
(Neri Pozza- Trad. di Federica Aceto, € 18)
L’esistenza di Bob Comet, bibliotecario in pensione, scorre come un lungo fiume tranquillo: non ha amici, il suo telefono non squilla mai e se qualcuno bussa alla sua porta, di sicuro è per vendergli qualcosa. Da tempo Bob ha rinunciato all’idea di conoscere il prossimo, o di lasciarsi conoscere, e il suo unico modo di stare nel mondo è tramite la lettura: qualcosa di vivo, in costante movimento e perenne crescita. In quasi tutte le stanze della sua casa ci sono scaffali zeppi di volumi, nei corridoi ordinate torri di libri, ovunque romanzi ammassati. L’altro piccolo piacere che Bob si concede è camminare. Le sue lunghe passeggiate cominciano senza una meta precisa e non prevedono contatti umani. Fino al giorno in cui, entrando in un 7-Eleven, si imbatte in una donna dall’aria assente, ferma davanti alle porte di vetro dei frigoriferi. La donna è vestita come una bambina, ma da sotto il berretto le spunta una zazzera bianca e scarmigliata. Al collo ha un foglietto legato a una cordicella, con la scritta: Mi chiamo chip, e vivo al centro anziani Gambellreed. Nel ricondurre la sperduta signora alla residenza per anziani, lo sguardo di Bob cade su un volantino in una bacheca: è un appello a fare volontariato presso quel centro. Un’occasione, per Bob, di sottrarsi all’ostinata solitudine di decenni. Ma anche, in modo del tutto inatteso, l’opportunità di riconciliarsi col suo passato e, forse, affrontare la feroce nostalgia per un amore perduto.
Berta Bojetu
FILIO NON è A CASA
(Voland – Trad. di Patrizia Raceggi, € 19)
n un’isola remota e dalla natura insolita uomini e donne vivono separati, ma i primi esercitano il loro dominio sulle seconde con la violenza. Tutti però sono sottomessi alle regole infami di un proprietario senza nome che risiede sulla terraferma. In questa realtà è cresciuta Filio, insieme alla nonna Helena e al giovane Uri: le tre voci alle quali Berta Bojetu affida il racconto di un inquietante altrove dominato dall’istinto di sopravvivenza e da sentimenti che non vanno oltre la paura, l’odio e il sospetto nei confronti del prossimo. Un’opera di sconvolgente crudezza in cui i protagonisti cercano di reagire alla progettata distruzione della loro individualità con forza vitale e creativa.
Hans Sahl
I POCHI E I MOLTI
(Sellerio – Trad. di Enrico Arosio, € 16)
Georg Kobbe, scrittore, borghese, ebreo tedesco, vive in esilio a New York. È riuscito ad espatriare, attraverso le vie di fuga avventurose dell’epoca, quando il Nazismo aveva iniziato a spazzare via rapidamente il suo mondo confortante. In condizioni normali, come dice lui stesso, sarebbe stato un intellettuale di successo, di quelli ben corazzati di opinioni rassicuranti, esposte con parole calme, pronti a dire che «il diavolo non è mai brutto come lo si dipinge». Ma adesso, ciò che è accaduto gli ha aperto gli occhi su tutto quanto, il passato, il presente e il futuro che aspetta. Sin dall’incontro, sul cargo che lo strappava all’Europa, con quell’italiano cinico e vitale, «della schiatta dei Villon e dei Rimbaud» (Ignazio Morton, nome inventato che nasconde Ignazio Silone, come tanti altri personaggi veri inseriti nella finzione del romanzo), il suo è diventato un atteggiamento di pessimismo e disincanto. E per suo tramite racconta la cronaca (dalla Repubblica di Weimar al 1945) di uno sradicamento personale e valido per tutti gli esuli come lui. L’umiliazione vile impensabile e insopportabile, i ricordi giovanili nell’ambiente di agiati ebrei fiduciosi e integrati, le fughe, la misera quotidianità di chi fu in patria una persona influente, gli illusi, i fanatici, quelli che scelgono un nuovo oppressore per scacciare il vecchio, chi si sente inesorabilmente triturato tra due terrori opposti, le storie personali straordinarie e beffarde, i volenterosi, chi cede d’un tratto o a poco a poco: insomma, tutte le situazioni umane di chi fugge la persecuzione, con tutti i suoi molteplici significati, dentro e al di là del tempo. I pochi del titolo non sono soltanto le persone di pensiero che si opposero, contro i molti intellettuali che rimasero. Sono anche (malinconicamente, pessimisticamente) i pochi che godono della voluttà di essere soli, contro i molti che scelsero la complicità. Scritto nel 1959, unico romanzo di Hans Sahl, autore versatile, noto giornalista, che vi trasfigura la propria biografia, I pochi e i molti appartiene alla lista dei fondamentali, «entrato nel canone novecentesco come una delle testimonianze più importanti della “letteratura dell’esilio” maturata negli anni del Terzo Reich» (scrive Enrico Arosio nella Nota). Figurando accanto ai libri di Erich Maria Remarque, di Anna Seghers, di Klaus Mann, di Ste-fan Zweig, di Arthur Koestler.
Grazia Cherchi
FATICHE D’AMORE PERDUTE
(minimum fax, € 14)
È ancora possibile battersi insieme per qualcosa, magari per l’ultima volta, e avere uno straccio di speranza? E se sì, per che cosa? Grazia, la narratrice autobiografica di questo romanzo, si fa prestare per un weekend una casa di campagna per sottoporre queste domande a nove suoi vecchi amici. Non si vedono da venticinque anni, dai tempi del Sessantotto. Grazia chiede a ognuno di raccontare gli amori, il lavoro, i successi e gli errori delle loro vite. Con una leggerezza piena di argute e divertite osservazioni, che spesso diventano lapidari aforismi, va così in scena il bilancio di una generazione, delle sue battaglie, la lunga catena dei fallimenti storici, culturali, politici della sinistra italiana.
«Come facevo a prendere tanto sul serio la mia infelicità?», si chiede qualcuno. E qualcun altro chiosa: «Ci hanno portato via il nostro passato e anche le parole per raccontarlo». Bisogna «prendere atto che è sparito, si è perso tutto quello in cui credevamo, che amavamo. Passioni, anzi fatiche d’amore, perdute per sempre!».
Giocando con i generi e le citazioni, Grazia Cherchi riscrive in chiave tutta italiana Il grande freddo di Kasdan, senza nostalgie né indulgenza, ma con l’intelligenza e l’umorismo di una Woody Allen nata in Emilia. Pubblicato la prima volta nel 1993, pochi mesi prima della discesa in campo di Silvio Berlusconi, Fatiche d’amore perdute è un rendiconto testamentario della fine del secolo, da leggere per poter dire, alla fine, senza rimpianti e quasi con un senso di liberazione, che «adesso il passato è veramente passato».
Rachel Aviv
STRANIERI A NOI STESSI
(Iperborea – Trad. di Claudia Durasanti, € 19)
Rachel Aviv ha solo sei anni quando viene ricoverata con una diagnosi di anoressia. Passano poche settimane e, da un giorno all’altro, ricomincia a mangiare. A differenza delle compagne di reparto già adolescenti – fra cui Hava, tanto brillante quanto tormentata, e così simile a Rachel da sembrarne la sorella – l’anoressia non diventa una «carriera». E se non fosse andata così «bene»? Se il desiderio di emulazione verso quelle ragazze dannate e affascinanti avesse lasciato una traccia più profonda dentro di lei? Qui inizia Stranieri a noi stessi, il racconto di cinque vite parallele, cinque persone le cui diagnosi psichiatriche hanno finito per impossessarsi delle loro identità: Bapu, venerata come una santa negli ashram dell’India e bisognosa di cure mentali per la sua famiglia; Naomi, incarcerata dopo un tragico episodio di psicosi e alla ricerca disperata del perdono dei propri figli; Ray, medico caduto in disgrazia che ha dedicato la vita a vendicarsi dei suoi analisti; Laura, promettente studentessa di Harvard che dopo anni di terapie e diciannove psicofarmaci diversi non sa più chi è senza medicine. E Hava, che a ogni nuovo diario si impegna a trovare la forza per superare l’anoressia, ma si sentirà fino alla fine una «straniera a se stessa». Grazie ad anni di studio, interviste e scambi con i protagonisti di questo libro, la pluripremiata giornalista del New Yorker Rachel Aviv scrive un’indagine accorata sui limiti delle nostre conoscenze intorno alla mente umana e sul bisogno che abbiamo di raccontarci e farci raccontare dagli altri nel tentativo di conoscerci. Perché niente come una storia ha il potere di cambiare – nel bene, nel male – la nostra identità e quindi la nostra vita.
Andrea Martina
FURIA
(66thand2nd, € 16)
Brindisi, 1981. Teo Furia ha quindici anni, è un ragazzo irrequieto, giovane stella della pallacanestro locale. Suo fratello maggiore Carmine è stato un pilota automobilistico e ora, sospeso dalle competizioni ufficiali, trova nelle corse clandestine un modo facile per fare soldi. Per entrambi lo sport potrebbe essere la strada per un futuro migliore, ma è anche il terreno accidentato su cui va in scena il loro fallimento. E per entrambi la famiglia è un dolore, perché la madre è morta all’improvviso e il padre Silvan, meccanico dei contrabbandieri, sembra non pensare troppo ai figli. Tutto precipita quando Bruno, un criminale legato in passato a Silvan, esce dopo sei anni dal carcere. Seguendo gli ordini dello Zio, un misterioso capo, Bruno s’impegna a mettere insieme un gruppo che estrometta i napoletani dal contrabbando delle sigarette, le «bionde», in Puglia. È l’alba della Sacra Corona Unita. Dopo un vano tentativo di coinvolgere Silvan nel suo progetto, Bruno avvicina Carmine e Teo e li usa come strumento di pressione contro il padre. La famiglia si dividerà per sempre? O quel cognome che li unisce, quella furia che li lega, avrà la meglio? Andrea Martina ci consegna un romanzo che emoziona e va veloce, un noir sotto il sole del Meridione, in bilico tra violenza e speranza.