è una sensazione molto bella, che coglie assai di rado dopo la lettura di un libro: quella aver sfiorato il luogo segreto da cui nascono le storie. Non è facile definirla altrimenti. Succede quando l’autore costruisce un mondo così ricco e credibile che tutto, davvero tutto, può accadere. Philipp Meyer – quarantenne romanziere statunitense al suo secondo romanzo – è questo genere di scrittore.
Le pianure assolate del Texas, i suoi cieli bassi, la terra spaccata e rossa, solcata dai cavalli, i canyon che si aprono all’improvviso; mandrie di bufali selvaggi in cerca di erba fresca, o di acqua. Una volta queste terre erano Messico e da qui, non a caso, parte questa storia che contiene, o prova a contenere, tutte le storie nordamericane. “La mia data di nascita vi sarà familiare”, dice Eli McCullough, il protagonista principale del libro, che nasce il 2 marzo 1836, nel momento esatto in cui il Texas diventa parte degli Stati Uniti, con una dichiarazione d’indipendenza ratificata “in un’umile casupola sulle rive del Brazos”.
Primo bambino nato nel Texas a stelle e strisce, Eli è necessariamente un pionere. “A dodici anni avevo già ucciso la più grossa pantera mai vista nella contea di Blanco”. Non ancora adolescente e già uomo. Ma è solo l’inizio. Il secolo di vita di Eli è segnato in profondità da un primo espisodio: non ancora adolescente, la sua famiglia viene sterminata dai Comanche, che lo rapiscono e pian piano ne fanno uno di loro. Per Eli comincia un lungo addestramento: impara a cavalcare, a tirare con l’arco, a sparare come un Comanche. Impara la loro lingua. Impara a conciare le pelli, ma presto smette di farlo, perché è un lavoro da femmina. Impara a scannare l’avversario appena vinto, a mangiare le carni crude di un animale ucciso, a berne il sangue se c’è poca acqua. Impara l’amore. E impara anche a fare i conti con il grumo d’odio per quella gente che gli ha ucciso la famiglia per diventare poi, un po’ alla volta, la sua famiglia. Eli McCoullgh diventa Tiehteti. Solo per qualche anno, però.
La vera famiglia di Eli, infatti, restano i McCoullogh. E la sua erede è Jeannie, la pronipote: colei che a partire dagli anni Quaranta del Novecento trasforma una stirpe di allevatori in una dinastia di petrolieri. Attraverso la figura di Jeannie, Meyer racconta la trasformazione di un intero stato, da terra di allevatori a paradiso del petrolio. Cambiamento non semplice, viste le resistenze delle famiglie più tradizionaliste. Ci vorrà un po’ di decisione. Quando poi si scopre che in Texas di petrolio ce n’è pochino, che quello vero è in Medio Oriente, niente vieta di interferire con la politica iraniana.
La lunga storia che Philipp Meyer racconta è quella del popolo americano: fatta di violenza, sopraffazione, mescolanza, identità continuamente variabili. Chi sono i veri americani, chi i loro nemici? Chi i legittimi proprietari, chi gli usurpatori? Sembrano essere queste le domande da cui nasce questa storia, che non contiene risposte ma offre punti di vista.
E proprio da queste domande sembra sorgere il terzo troncone narrativo – oltre a quelli di Eli e Jeannie – che ha per protagonista Peter, il figlio di Eli. Già uomo adulto, Peter è costretto ad assistere, senza trovare il coraggio di opporsi, al massacro di una famiglia, i Garcia, che ha origini spagnole ma occupa il suo lembo di terra in Texas da più tempo di qualsiasi famiglia “americana”. Due ragazzi Garcia sono accusati di aver rubato del bestiame e sparato al figlio di Peter, Glenn. In realtà nessuno li ha visti bene, ma l’accusa è il miglior pretesto per regolare odii antichi. La spedizione che, in fretta e furia, viene organizzata, è brutale. Si salva solo María Garcia, una delle figlie. Che con colpo da maestro, qualche anno e trecento pagine dopo, Meyer fa rientrare nella storia.
Molto celebrato dalla critica, Il figlio è un romanzo lungo, complesso e stupendo. Chissà che davvero non diventi un classico, come promette la fascetta di Einaudi. Di sicuro farà di tutto per portare il lettore lì, nel luogo segreto da cui tutte le storie sembrano scaturire.